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12. Monasteri e conventi

Livello: sezione

Estremi cronologici: 1598 ott. 21 - 1965

Consistenza: 56 unità

L'ammissione in un qualsiasi monastero o convento di monache constava di due stadi, il noviziato e la professione. Il noviziato era un periodo di preparazione e di prova della durata di almeno un anno, da compiersi dopo il 12° anno di età (Conc. Trid., sess. 25 cap. 17). L'ammissione al noviziato era di competenza dell'Ordinario diocesano, poiché i monasteri e i conventi di monache di Prato (non esenti) erano tutti soggetti alla giurisdizione del vescovo. Era preceduta da un esame, chiamato «esplorazione di volontà», fatto dall'Ordinario o da un sacerdote delegato, circa le intenzioni, l'idoneità, la libertà e la vocazione specifica dell'aspirante, ed era condizionata al voto favorevole del capitolo delle monache, espresso con maggioranza qualificata. Il papa Innocenzo XI aveva imposto anche l'obbligo degli esercizi spirituali: «tutte quelle, che vorranno farsi Monache in qualsivoglia Monastero, anche soggetto a' Regolari, siano tenute fare i detti Esercizi Spirituali per dieci giorni, avanti che ricevano l'Abito, e siano ammesse al Noviziato». Il noviziato cominciava con la presa dell'abito (vestizione o vestimento) e veniva fatto in apposito luogo, detto appunto noviziato, sotto la guida della maestra delle novizie. Altro requisito previsto era la costituzione della dote, che doveva essere realmente versata al monastero prima della professione religiosa. L'atto, approvato dall'Ordinario, era depositato nella Cancelleria della Curia. Terminato il noviziato, la novizia veniva ammessa alla professione temporanea, preliminare e preparatoria alla professione perpetua, per la cui validità era richiesta l'età di 16 anni (Conc. Trid., sess. 25 cap. 15). Le monache che avevano portato una buona dote erano ascritte al numero delle corali, le altre alle converse. Quest'ultime erano addette ai lavori più umili e date in aiuto delle corali.
I monasteri potevano ricevere anche fanciulle e ragazze «a educazione» o «in serbanza», fino dall'età di cinque anni. Soprattutto le famiglie nobili trovavano in tale sistemazione un mezzo sicuro per salvaguardare l'unità dei beni familiari. Era questa, troppo spesso, la via naturale per diventare monache. L'ammissione di educande in monastero richiedeva un deposito reale e un atto di mallevadoria, che assicurassero il «pagamento degli alimenti».
Il capitolo era l'organismo collegiale di governo dei monasteri. Aveva il compito di tutelare il patrimonio dell'istituto, eleggere la priora o la badessa e le altre cariche, trattare gli affari di maggiore importanza (elezione di operai, del fattore, del medico, esclaustrazione, ecc.), emanare norme che tutte erano tenute ad osservare. I bilanci economici del monastero erano trasmessi alla Curia al termine del triennio di governo della badessa o della priora.
Il convento di S. Caterina, soppresso dal vescovo Ricci l'8 mar. 1783, fu trasformato in conservatorio «a uso di scuole pubbliche della città». Degli altri nove conventi e monasteri femminili di Prato, in ordine al motuproprio del granduca Pietro Leopoldo, del 21 mar. 1785, tre furono soppressi «per la qualità delle fabbriche ed il numero scarso degli individui», due optarono per «la perfetta vita comune», ossia per la vita religiosa, quattro preferirono trasformarsi in conservatori laicali. I conventi soppressi furono S. Chiara (29 dic. 1785), S. Matteo (13 mag. 1786), S. Trinita (29 dic. 1785 e 4 ago. 1786). I conventi trasformati in conservatori furono S. Clemente e S. Giorgio, per le ragazze del ceto cittadino; S. Niccolò, per le ragazze nobili; S. Margherita, «per il ricovero delle vedove e per coloro che non si adattassero all'educazione negli altri conservatori». Le monache di S. Michele e quelle di S. Vincenzo decisero di continuare nella professione della vita religiosa. L'ordinanza del Governo francese, del 29 apr. 1808, e il decreto imperiale di definitiva soppressione delle corporazioni religiose, del 13 set. 1810, stabilirono d'autorità la fine della vita religiosa che, tuttavia, poté rivivere in seguito alla convenzione del 4 dic. 1815 fra le Corti di Toscana e di Roma per la ripristinazione degli ordini claustrali. Ripresero le loro funzioni soltanto i monasteri di S. Vincenzo, di S. Michele e di S. Clemente, i quali ottennero di riaprire, con rescritto granducale, tra il set. e il dic. 1814; anche nel monastero e conservatorio di S. Niccolò ritornarono le monache domenicane. Nel 1849 il Governo provvisorio toscano soppresse il monastero di S. Michele e costrinse le benedettine, che vi dimoravano, a passare in S. Clemente. Soppressi nuovamente dal Regno d'Italia, con le leggi 7 lug. 1866, n. 3036, e 15 ago. 1867, n. 3848, tutti i conventi, alle monache di S. Clemente, di S. Vincenzo e di S. Niccolò non restò che di convivere sotto l'egida del diritto comune. Col mezzo dell'interposta persona, riacquistarono gli immobili conventuali espropriati e, solo in virtù del Concordato del 1929, poterono regolarizzare la loro anormale posizione giuridica ed ottenere il riconoscimento della personalità 1 .