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Comunità di Vinci

Sede: Vinci (Firenze)

Date di esistenza: sec. XIV - 1865

Intestazioni: Comunità di Vinci, Vinci (Firenze), sec. XIV - 1865

Storia amministrativa:

Il castello di Vinci passò dalla signoria dei conti Guidi alla giurisdizione del comune di Firenze nella seconda metà del secolo XIII1. A parte un tentativo di ribellione perpetrato al tempo delle guerre contro Castruccio Castracani da alcune casate signorili della zona capeggiate dai da Anchiano2, la pacifica accettazione dell'egemonia fiorentina costituisce una delle costanti più significative nelle plurisecolari vicende storico-amministrative di Vinci che qui verremo - sia pure schematicamente - esaminando. La rocca, già baluardo del potere comitale, divenne, presumibilmente senza soluzione di continuità, sede del rappresentante in loco della città dominante, benché si abbiano notizie certe su tale presenza solo a partire dal 13413. In seguito nella rocca sarà ricavata l'abitazione del podestà e la sala per le riunioni dei consigli commutativi, rimanendo pertanto, attraverso i secoli, il "luogo pubblico" per eccellenza4.

Vinci fu, quindi, a partire dal secolo XIII, aggregata al contado di Firenze, a quella parte di territorio, cioè, dove più antico e diretto era il dominio della città e che fino alla fine del secolo XVIII conserverà notevoli differenze giuridiche e politiche rispetto al distretto, che invece era la parte di territorio di acquisizione più recente. Il contado di Firenze coincideva quasi del tutto con il territorio delle diocesi di Firenze e Fiesole e pertanto proprio in questa zona costituiva un'enclave, incuneandosi nella diocesi di Pistoia con Vinci e in quella di Lucca con Cerreto Guidi.

Il Comune di Firenze smantellò progressivamente, nei territori che veniva man mano strappando ai rispettivi signori, il sistema organizzativo tipicamente feudale in castelli e curie e lo sostituì con l'antica organizzazione di origine ecclesiastica in pivieri e popoli, che affondava le sue radici nell'alto medioevo5. Il termine «popolo» designava tanto il territorio che la popolazione di una parrocchia; le parrocchie infatti furono diffuse capillarmente dalla Chiesa su tutto il territorio e, in secoli caratterizzati dalla latitanza del potere politico, assunsero anche funzioni civili ed amministrative, diventando la circoscrizione amministrativa di base - vera e propria "cellula" del sistema amministrativo dello stato fiorentino - fino alle riforme settecentesche operate dal granduca Pietro Leopoldo d'Asburgo Lorena6. I popoli o parrocchie che facevano capo ad una stessa pieve costituivano un piviere (plebatus). Secondo questa organizzazione ecclesiastico-civile, il territorio appariva come una rete, a maglie piccole - i popoli appunto - raggruppati a formare maglie più grandi - i pivieri -, gli uni e gli altri intitolati al santo titolare della rispettiva chiesa. Questa struttura rimase viva e vitale fino al pieno secolo diciottesimo e, anche se le vicende del popolamento e l'evoluzione politico-istituzionale provocarono accorpamenti e separazioni, i popoli e, in minor misura i pivieri, sono rimasti entità nettamente definite e riconoscibili fino ai giorni nostri.

Per il territorio di Vinci è possibile verificare l'organizzazione in popoli e pivieri attraverso le Rationes decimarum del 1274-1280 e del 1296-1297, cioè i ruoli delle decime ecclesiastiche che ogni parrocchia o popolo era tenuto a pagare alla Santa Sede7. In base a questi documenti il castello di Vinci coincideva con il popolo di santa Croce a Vinci, che insieme ai popoli rurali di santa Maria a Faltognano, san Pietro a Vitolini, san Donato in Greti, sant'Jacopo a Vallebretta, e san Michele Allianella (Dianella) costituiva il piviere di san Giovanni in Greti o sant'Ansano, della diocesi di Pistoia. I popoli della pianura sottostante, come san Bartolomeo a Sovigliana, santa Maria a Petroio e santa Maria a Pagnana Mina (oggi Spicchio), erano allora suffraganei della pieve di sant'Andrea a Empoli, e come questa compresi nella diocesi di Firenze, nonostante il fatto che a complicare i collegamenti con la chiesa matrice (l'unica, com'è noto che fino al Concilio di Trento fosse dotata di fonte battesimale) ci fosse il fiume Arno, allora privo di ponti. Questi tre popoli subiranno nel corso dei secoli frequenti spostamenti tra le circoscrizioni di Empoli e Cerreto Guidi, fino ad approdare definitivamente con la Restaurazione nel comune di Vinci.

L'organizzazione interna dei singoli popoli era in genere piuttosto semplice: poiché i popoli rurali erano solitamente costituiti da poche decine di famiglie, le questioni più importanti erano discusse dall'assemblea dei capi-famiglia, istituto di democrazia diretta che in alcune aree più marginali, o nel caso in cui esistessero usi civici e proprietà comuni, rimase in vita fino al pieno Settecento8; sempre dai capi famiglia veniva eletto il rettore del popolo, che in genere rimaneva in carica sei mesi o un anno e che svolgeva compiti di fondamentale importanza, come la ripartizione dell'Estimo (l'imposta diretta che gravava su ogni famiglia soggetta alla giurisdizione fiorentina9) e la sorveglianza sull'ordine pubblico, con conseguente denuncia alla corte penale competente dei reati commessi entro i confini del popolo10. I compiti dei rettori relativi all'Estimo derivavano dal fatto che il popolo era responsabile in solidum del contingente d'imposta assegnato dalla città dominante, la quale poi si disinteressava completamente di come avvenisse la distribuzione tra i singoli contribuenti; questo delicatissimo compito veniva pertanto svolto dai rettori che si basavano sulla conoscenza diretta delle possibilità economiche delle varie famiglie e potevano anche decidere di esentarne alcune, classificandole come «miserabili». Per l'esazione dell'Estimo, come per altre finalità amministrative, il contado risultava diviso in quattro parti, ognuna delle quali costituiva la proiezione, oltre la cerchia delle mura cittadine, dei quattro quartieri della città di Firenze; il territorio di Vinci era aggregato al quartiere fiorentino di santa Maria Novella. Le competenze nel campo dell'imposta diretta dei rettori dei popoli cessarono, per quanto riguarda il contado fiorentino, nel 1427, allorché con l'introduzione del Catasto, furono adottati criteri più oggettivi per il calcolo del coefficiente d'imposta ed ogni contribuente divenne direttamente responsabile di fronte al fisco, senza più la mediazione del popolo e del suo rettore, i quali tuttavia conservarono importanti competenze sulla gestione economica fino alle riforme leopoldine degli ultimi decenni del Settecento11. Anche per quanto attiene alla giustizia penale il popolo era responsabile in solidum dei reati commessi entro i suoi confini e rimasti impuniti; pertanto era interesse primario del rettore denunciare prontamente i presunti responsabili alla corte penale competente. Nei centri più grandi tale funzione veniva svolta da appositi «sindaci dei malefizi», le cui competenze furono ulteriormente potenziate durante il regno di Cosimo I de' Medici12.

Si può presumere che in origine non vi fosse differenza di organizzazione tra un popolo e l'altro, ma almeno a partire dalla seconda metà del Duecento alcune località del contado fiorentino, tra cui Vinci, cominciano ad essere definite nei documenti con la qualifica di «comune», indice del fatto che avevano acquisito un'organizzazione interna più complessa, che prevedeva organismi rappresentativi e magistrature di governo locale. Tale evoluzione fu certamente favorita dal fatto che nei centri più popolosi era difficilmente praticabile la democrazia diretta, ma la causa principale che indusse gli abitanti di alcune località a dotarsi di un'organizzazione interna più articolata e complessa è stata individuata nel fenomeno dell'incastellamento, ovvero nella costruzione della cinta muraria, talvolta voluta dagli stessi abitanti, ma più spesso decisa dai signori o dalle città che detenevano la giurisdizione sulla zona. Le mura richiedevano spese di gestione c di manutenzione, a loro volta implicanti la presenza di organismi decisionali, capaci di imporre tributi alla popolazione e l'elaborazione di statuti, che di questi organismi stabilissero regole e procedure.

Con il termine «Statuto» si designa, com'è noto, un complesso organico di norme fondamentali per l'organizzazione ed il funzionamento di un ente; esso di solito viene autonomamente elaborato dai rappresentanti dell'ente stesso, ma talvolta può anche essere imposto per atto d'imperio da un'autorità superiore. Fu questo il caso del più antico statuto di Vinci giunto fino a noi, risalente al febbraio 1383 e dettato da tre emissari, definiti «ambaxiatores sive reformatores», inviati sul posto dal governo di Firenze13. La compilazione che ne derivò fa parte di una singolare fioritura di nuovi testi statutari nelle comunità del contado che prese le mosse nello stesso periodo in cui in Firenze avveniva la liquidazione del regime dei Ciompi e la fondazione di un governo oligarchico, caratterizzato dalla leadership della famiglia degli Albizi. Fu una breve stagione, durata non più di quindici anni e che finora non è mai stata adeguatamente studiata, almeno dal punto di vista dei riflessi sul governo del dominio14. La produzione statutaria di questo periodo ha alcune caratteristiche generali: interessa soltanto comunità del contado, viene elaborata direttamente da membri del governo fiorentino e riguarda essenzialmente le modalità di accesso agli uffici pubblici. Anche la qualifica di reformatores attribuita agli incaricati di queste operazioni rimanda al concetto di «riforma», cioè di rinnovo delle cariche. Queste elaborazioni statutarie, contemporanee all'istituzione dei podestà e dei vicari nei principali centri del dominio, rientrano, a mio avviso, in un progetto generale di armonizzare le sparse membra del dominio di Firenze in una compagine statale più omogenea, elaborato dal gruppo oligarchico allora al potere, tentativo che però fu ben presto messo da parte.

Gli statuti delle comunità soggette a Firenze elaborati nel periodo successivo ebbero ben altre caratteristiche: furono opera di abitanti del luogo, cui per deliberazione dei consigli locali, era attribuita la qualifica di «statutari» e riguardarono non solo le cariche, ma un po' tutti gli aspetti della vita associata.

I tre riformatori di Vinci del 1383 disegnarono la conformazione degli organi di vertice del governo locale: due rettori, detti, per analogia con istituzioni fiorentine, «Capitani di parte guelfa», un consiglio di diciotto membri ed un altro di venticinque, scelti in misura proporzionale tra i quattro quartieri in cui il paese venne a questo scopo diviso; completavano l'organigramma del comune alcuni uffici minori: gabellieri, sindaci, pennonieri, un massaio ed un camarlingo. Dopo aver stabilito l'ossatura del governo comunale, i tre riformatori passarono a dettare norme per l'accesso alle varie cariche, mantenendosi tuttavia su un piano molto generale: fu stabilito il divieto di ricoprire incarichi pubblici per i discendenti delle casate ghibelline che nel 1316 - 1318 avevano tramato per staccare Vinci dal dominio di Firenze, venne fissata l'età minima per l'accesso alle varie cariche e la procedura per l'imborsazione dei nomi selezionati e la successiva estrazione a sorte. L'opera fu completata con la compilazione effettiva, alla presenza dei medesimi riformatori, degli elenchi degli eleggibili alle varie cariche, i cui nomi furono poi immessi nelle relative borse da cui sarebbero stati estratti a sorte al momento del bisogno. La redazione di questi Statuti occupò pochi giorni, compresi tra l'8 ed il 13 febbraio 1383, ma le nuove norme e soprattutto l'esclusione dalle cariche pubbliche dei discendenti dei ghibellini, norma che tuttavia era già presente in una più antica silloge statutaria, cui si fa riferimento ma che non è giunta fino a noi, destarono profondo scontento tra gli abitanti del castello. Spia di questo fatto è la frettolosa approvazione, tra il 14 ed il 23 febbraio, di alcune eccezioni a questa norma ed infine il 24 febbraio, l'approvazione di un'ultima rubrica che attribuiva al podestà di Vinci la cognizione dei reati di rissa ed insubordinazione, indice del fatto che lo scontento era sfociato in veri e propri atti di ribellione, finché il 7 marzo le norme incriminate furono abrogate.

Alle liste elettorali elaborate nel febbraio 1383 fu assegnata, sempre dai riformatori fiorentini, una validità di sei anni, ma presumibilmente non se ne fecero di nuove fino al 1396 ed anche questa volta le operazioni furono effettuate alla presenza di ufficiali fiorentini che annullarono le liste precedenti e modificarono in alcuni dettagli marginali la normativa elaborata dai predecessori. Fu questo l'ultimo intervento diretto del governo fiorentino sulle elezioni locali; dopo il 1396-1397 non si registrarono infatti nuovi invii di riformatori fiorentini, non solo a Vinci, ma neppure in altre località, segno che l'interesse della classe dirigente fiorentina a queste problematiche si era ormai esaurito. Gli statuti posteriori hanno, come si è già detto, caratteristiche e contenuti molto diversi da quelli ora esaminati, mentre il governo fiorentino dal canto suo si limitò da allora in poi a sottoporre a controllo le norme elaborate a livello locale, annullandole se giudicate difformi dagli interessi della dominante, ma senza più intervenire direttamente.

Nel contado fiorentino, dopo un lungo periodo in cui quella in popoli e pivieri era stata l'unica forma di organizzazione, almeno a partire dai primi anni del secolo XIV il comune di Firenze aveva varato il sistema delle leghe.

La lega era un'aggregazione di popoli, comuni e pivieri ed aveva come scopo principale quello di fare da base al reclutamento delle milizie rurali. Essa per assolvere ai suoi compiti era dotata di una struttura organizzativa con a capo un capitano, assistito da un notaio, che ne redigeva gli atti. In genere il capitano veniva scelto direttamente dal governo fiorentino tra persone non residenti nel territorio della lega, per garantire una certa equidistanza nei confronti dei sottoposti; oltre ad organizzare le operazioni di leva, fungeva anche da giudice nelle controversie di poco conto sorte sul suo territorio (per le cause importanti, tanto civili che penali, bisognava invece adire ai tribunali della capitale); il capitano inoltre applicava multe, catturava banditi e malfattori, consegnandoli poi ai competenti organi fiorentini. In seguito le leghe formarono il quadro organizzativo per la ripartizione dell'estimo.

Le prime notizie dirette sull'organizzazione in leghe del contado fiorentino sono contenute nella rubrica LXXX del libro V dello Statuto del Capitano del Popolo del 1322, intitolata appunto De iuramento ligarum comitatus et districtus Florentie ove, oltre a parlare diffusamente delle leghe, dei loro compiti, dei loro rappresentanti e capitani, esse vengono anche enumerate, ma tutta questa rubrica risulta pesantemente corretta e rimaneggiata nel corso delle revisioni subite dallo stesso statuto nel 1324 e 1325 e pertanto di difficile interpretazione: sembra comunque di capire che Vinci era allora unita in lega con Cerreto Guidi e con altri luoghi vicini sotto un unico capitano, cittadino fiorentino, eletto semestralmente con un salario di settanta lire, da pagarsi da parte degli abitanti del luogo. Nelle revisioni successive, dirette evidentemente sia a ridurre il numero dei capitani che le spese per il loro salario, la lega di Vinci e Cerreto Guidi rimase, ma si stabilì che il capitano, invece di un salario prestabilito, ricevesse un compenso giornaliero di 40 soldi, per i soli giorni in cui fosse stato effettivamente presente nel territorio della lega. Il numero di questi giorni non poteva essere inferiore a dieci al mese, ma questa normativa è la spia del fatto che il capitano della lega non era una presenza stabile sul territorio, bensì un ufficiale itinerante, che visitava i vari luoghi della sua giurisdizione secondo necessità.

Una successiva riorganizzazione del sistema delle leghe, operata nel 1331 - 1332 da una commissione di ufficiali eletti appositamente dalla Signoria di Firenze «super reformando et ordinando ligas in comitatu», portò all'accorpamento di Vinci alla lega di Capraia, formando un organismo territorialmente più complesso che riuniva sotto un medesimo capitano i comuni di Capraia, Vinci, Musignano, Colligonzi, Colle alla Pietra, i popoli della pieve di san Leonardo a Cerreto, di sant'Iacopo a Campostreda, san Lorenzo a Linari e san Giusto a Musignano, insieme alla quarta parte degli uomini di Calappiano. A questa lega così allargata veniva attribuito un contingente d'estimo pari a lire 3763. Questo fatto rende plausibile l'ipotesi che la nuova organizzazione fosse stata ideata soprattutto per motivi fiscali, tanto più che nel provvedimento di elezione degli ufficiali, oltre a ribadire i doveri delle leghe e dei loro capitani in materia di ordine pubblico, si fa esplicito riferimento alla necessità che «[...] comitatini et distrectuales Florentie obediant communi Florentie maxime in factionibus et aliis oneribus [...]», ovverosia alla corretta esazione delle imposte. Vi si fa inoltre riferimento a compiti di sorveglianza e cooperazione per l'estinzione degli incendi.

Questa articolazione della lega di Capraia, comprendente anche il territorio di Vinci, viene riportata pedissequamente nelle successive redazioni degli Statuti fiorentini, da quella del 1335, passando per quella del 1408-1409, fino all'ultima del 1415, anche se ormai, alla data di queste ultime due compilazioni, il sistema delle leghe era stato soppiantato dall'organizzazione per podesterie e vicariati.

Podesterie e vicariati rappresentavano, come il nome suggerisce, le circoscrizioni territoriali in cui si trovarono ad operare rispettivamente i podestà ed i vicari, cariche queste già sporadicamente presenti in varie località del dominio fiorentino fino dal secolo XIII; il fatto nuovo - collocabile tra l'ultimo quarto del secolo ed i primi due decenni del successivo - fu il loro stabilizzarsi e la fissazione dei rispettivi ambiti territoriali di competenza.

Podestà e vicari erano i rappresentanti del governo centrale (Signoria di Firenze e poi, dal pieno secolo XVI in poi, governo granducale), inviati nel territorio ad esercitarvi le funzioni connesse con la iurisdictio (funzione di governo, amministrazione della giustizia, etc.); più connotati in senso politico, i podestà venivano inviati nei principali centri del dominio, più a carattere militare la competenza dei vicari (non a caso i primi vicari di cui si ha notizia erano dei connestabili15) si esercitava di solito su un'intera provincia; per questa loro configurazione che almeno all'inizio poneva l'accento più sulla rappresentanza politica e sulla difesa dell'ordine pubblico, che sulle funzioni giudiziarie, non era richiesta a questi ufficiali alcuna preparazione tecnicogiuridica, mentre l'appartenenza alla classe dirigente fiorentina, l'affidabilità politica e la contiguità con il governo della dominante erano requisiti imprescindibili.

La saltuaria presenza di un podestà fiorentino a Vinci, in genere dietro richiesta degli stessi abitanti alla Signoria di Firenze, è documentata fino dagli ultimi anni del Duecento, ma in questi casi si trattava di una presenza straordinaria, legata a circostanze particolari e che non interferiva con il sistema di organizzazione del territorio per popoli, pivieri e leghe; al contrario il provvedimento del 30 dicembre 1368 che stabiliva l'estrazione a sorte, a partire dal 1 marzo successivo, di un podestà per Vinci e Vitolini, diceva espressamente che questo ufficiale avrebbero dovuto assumere le funzioni che nell'ordinamento fiorentino erano fino ad allora state affidate ai capitani delle leghe16. Questa disposizione era stata preceduta e fu seguita da provvedimenti in tutto analoghi che in un breve lasso di tempo stabilirono podestà in altri luoghi. In questo modo i podestà, da allora in poi scelti con il sistema dell'estrazione a sorte tra tutti i cittadini fiorentini abili a ricoprire incarichi di governo, e non più eletti o nominati al bisogno, diventano una presenza stabile e non occasionale e le circoscrizioni territoriali su cui esercitano le competenze, insieme a quelle più ampie costituite dai vicariati, divengono maglie di una rete che di lì a poco coprirà tutto il dominio fiorentino.

Il primo podestà di Vinci appartenente al nuovo corso fu Neri Nutini, in carica dal 1 marzo 136917 insieme ad un gruppo di collaboratori, detto «famiglia», composto da un notaio, quattro fanti, un cavallo e con un salario di lire 350, da pagarsi dagli abitanti del castello con i proventi delle multe e condanne pecuniarie e coprendo l'eventuale disavanzo con un'imposta straordinaria suddivisa tra i capifamiglia in base al contingente di estimo.

I podestà del contado (in parte diverso è il discorso per quelli delle città del distretto), oltre alla generale rappresentanza politica, dovevano amministrare la giustizia civile, decidendo cause fino a cinque lire di valore e perseguire i malfattori e punire i reati per cui era prevista una pena pecuniaria fino allo stesso valore, ma l'aspetto della rappresentanza politica insito nel loro incarico era preponderante sulle altre loro funzioni; essi erano tuttavia tenuti a portare con sé almeno un notaio, che forniva loro il necessario supporto tecnico-giudiziario. La responsabilità delle sentenze emesse e dei provvedimenti presi era però interamente del podestà, che allo scadere del mandato, veniva sottoposto a sindacato e solo se riconosciuto esente da errori o dolo, riceveva l'ultima rata del salario. I podestà del dominio si configuravano anche come capi delle amministrazioni locali e pertanto dagli anni ottanta del Trecento le riunioni dei consigli comunali, come il rinnovo delle liste elettorali ed altri atti importanti per la vita delle comunità, si svolgevano inderogabilmente alla loro presenza.

Il podestà di Vinci esercitava le proprie prerogative su un territorio comprendente, oltre il castello omonimo, un certo numero di popoli rurali, il cui elenco varia talvolta a seconda della fonte considerata18.

Questo territorio, al pari delle altre circoscrizioni podestarili, si dovette dotare di un'organizzazione amministrativa per porsi in grado di corrispondere il salario all'ufficiale fiorentino e di ripartirlo in modo più equo possibile tra gli abitanti. Fu per questo motivo che nacquero i consigli di podesteria, formati dai rappresentanti dei popoli e comuni del territorio e la complessa gerarchia di camarlinghi incaricati di riscuotere dai contribuenti quanto necessario al mantenimento delle corti podestarili, alla costruzione e manutenzione dei palazzi pretori con l'annesso carcere, al salario dei vari cancellieri, messi, guardie, custodi, etc., che la presenza del podestà rendeva necessari e furono redatti gli Statuti di podesteria che regolavano tutti questi aspetti.

L'organizzazione interna della podesteria di Vinci ci è stata tramandata dagli Statuti del 1418, che si aprono appunto con una rubrica riguardante l'obbligo del podestà di giurare sul Vangelo di applicare fedelmente gli Statuti locali. Essi prevedevano l'esistenza di un consiglio della podesteria, formato da cinque rappresentanti per il comune di Vinci, due per Vitolini ed uno per Faltognano (il numero dei rappresentanti era proporzionale alla quota dell'Estimo attribuita ai rispettivi comuni e popoli19), cui era demandato il sindacato sull'operato del podestà e la ripartizione delle imposte tra gli abitanti. Oltre ai consiglieri, l'organico della podesteria di Vinci, prevedeva alcuni ufficiali, la cui esistenza, meglio che dagli Statuti, traspare da un singolare documento del dicembre 1418.

In quel periodo la repubblica fiorentina, che fino ad allora aveva lasciato una relativa autonomia amministrativa alle comunità soggette, istituì un'apposita commissione di cinque cittadini «super correctionem et resecationem ex-pensarum comunitatum», allo scopo cioè di studiare il modo di comprimere le spese delle comunità del contado. Questa commissione, destinata a trasformarsi di lì a poco in una magistratura stabile per il controllo delle spese comunitative, con il nome di «Cinque conservatori del contado», attuò prima di tutto un'indagine conoscitiva su quali erano le voci fisse di spesa delle varie circoscrizioni territoriali del contado fiorentino (popoli, comuni, podesterie, vicariati), i cui risultati sono giunti fino a noi e costituiscono una fonte preziosissima di informazioni20.

Come organismi comuni a tutta la podesteria, oltre al podestà con la sua «famiglia» ed al consiglio di podesteria, di cui si è già parlato, esisteva un camarlingo generale, un notaio o cancelliere, incaricato di verbalizzare le sedute del consiglio di podesteria (talvolta questa funzione veniva affidata al notaio del podestà) ed un sindaco incaricato di denunciare i reati commessi entro i confini della podesteria al giudice penale competente. Oltre a questi ufficiali, che prestavano la loro opera a livello di tutta la podesteria, ce ne erano altri peculiari delle varie comunità che, come si è detto, costituivano il territorio della podesteria; in particolare il comune di Vinci, oltre ai rettori ed ai consigli già previsti dagli Statuti del 1383 (i quali nel frattempo avevano cambiato numero di membri e di conseguenza il nome, diventando Consiglio del dodici e Consiglio del sedici, forse per analogia con i Dodici Buonuomini ed i Sedici Gonfalonieri, i due collegi che a Firenze coadiuvavano la Signoria), era dotato di un camarlingo comunitativo, di una guardia comunale, un messo, un notaio dei danni dati (il settore giurisdizionale che si occupava dei danneggiamenti alle colture ed alla proprietà privata, che tradizionalmente rimase fino all'età moderna affidato alle amministrazioni locali). Il budget delle spese annuali del comune di Vinci comprendeva anche il compenso per un prete che battezzasse i bambini ed il costo della celebrazione delle feste di san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista. L'organico del comune di Vitolini era analogo a quello di Vinci, salvo per il fatto che vi erano in più un campanaio e un procuratore; la festa locale era, invece, dedicata ai santi Pietro e Martino; simile anche la dotazione di personale del popolo di santa Maria a Faltognano.

La struttura istituzionale della podesteria di Vinci e delle sotto-unità territoriali che la componevano rimasero sostanzialmente invariate (salvo l'evoluzione subita dalla figura del notaio-cancelliere nella seconda metà del Cinquecento, di cui parleremo ampiamente più avanti) fino alle riforme leopoldine, come anche i confini territoriali. Seguendo un'evoluzione che interessò in generale tutto il dominio fiorentino, il podestà perse con l'andar del tempo la maggior parte delle sue connotazioni politiche e si identificò sempre di più con il giudice ordinario in materia civile del territorio di sua competenza, incarnando quello che con felice espressione Elena Fasano ha definito «il volto locale della giustizia»; analogamente i vicari conobbero una parallela evoluzione che li portò a divenire i giudici penali ordinari della propria circoscrizione che solitamente comprendeva più podesterie.

In linea teorica tra vicari e podestà non esisteva alcun rapporto gerarchico, dato che entrambe le cariche venivano affidate per tutto il periodo precedente alle riforme leopoldine a semplici cittadini fiorentini abili agli uffici maggiori, tanto che la stessa persona poteva essere nel corso della sua vita chiamata a ricoprire più volte indifferentemente l'uno e l'altro dei due incarichi. Gli unici tecnici della situazione, coloro che erano in grado di istruire un processo, civile o penale, e di redigerne gli atti erano i notai della «famiglia» che ciascun vicario o podestà era tenuto a portare con sé in ufficio.

I vicari, in virtù dell'origine militare di questa carica, erano stati stabiliti dapprima nelle zone di confine ed in quelle più turbolenta21, ma poi, come si è già detto, persero gradualmente queste caratteristiche militari e divennero semplicemente i capi di una provincia, di cui le podesterie costituivano le varie sottounità; punto di arrivo di questo processo fu il 1415 quando dei vicari vennero insediati nel cuore stesso del contado, nella zona dove più antica e più incontrastata era la dominazione fiorentina; con provvisione del maggio 1415 vennero infatti istituiti i due vicariati del Mugello (con sede a Scarperia) e della Valdelsa (con sede a Certaldo) ed in questo secondo vicariato fu compresa per la giustizia penale anche la podesteria di Vinci22.

Questo assetto ebbe breve durata in quanto il 17 novembre 1424, nell'ambito di una drastica riduzione del numero dei podestà, fu abolita la carica di podestà di Cerreto Guidi ed il relativo territorio fu aggregato alla podesteria di Vinci. Si trattò dell'accorpamento di due circoscrizioni sotto un unico ufficiale, ma non di una fusione, in quanto le due podesterie continuarono ad avere ognuna i propri ufficiali ed i propri statuti; anzi gli statuti che l'ormai unico podestà di Vinci e Cerreto Guidi si trovava a dover applicare sul suo territorio erano almeno cinque: uno per Vinci, uno per il comune di Cerreto Guidi, uno per quello di Colligonzi, uno per Vitolini ed uno per Faltognano.

Per sopperire all'aumentata quantità di lavoro, la «famiglia» del podestà di Vinci fu integrata con la presenza di un secondo notaio, che doveva recarsi ad amministrare la giustizia a Cerreto Guidi, in sostituzione del podestà abolito, mentre i centri minori della podesteria, come Vitolini, Faltognano, ecc., dovevano ricevere la visita del podestà o del notaio una volta ogni una o due settimane. Anche il salario del podestà fu aumentato a cinquecento lire ogni semestre, mentre prima, quando i podestà erano due, la somma dei loro stipendi era di seicentocinquanta lire al semestre, con un evidente risparmio e conseguente sollievo delle popolazioni locali; nonostante ciò il provvedimento del 1424 fece nascere una forte rivalità fra Vinci e Cerreto Guidi, destinata a durare per secoli e che vide quasi sempre soccombere la prima località. Inoltre da questa unione delle due podesterie scaturì un altro problema, che parimenti stentò a trovare una pacifica soluzione: Vinci era compresa dal 1415 nel vicariato di Certaldo, mentre invece Cerreto Guidi era stata unita fino dal 1394 (quando ancora il vicariato della Valdelsa non esisteva) a quello del Valdarno inferiore con sede a San Miniato. Con provvedimento del 28 novembre 1424 la podesteria di Vinci fu trasferita, per quanto riguardava il penale, sotto la competenza del vicario di San Miniato, mentre per quanto atteneva alla gestione economica (pagamento delle imposte dirette, etc.) doveva rimanere unita al vicariato della Valdelsa: non c'è bisogno di dire quanto questa situazione sia stata foriera di disguidi, proteste e difficoltà di ogni genere.

Tornando all'unione delle due podesterie, occorre dire che gli abitanti di Cerreto Guidi non si rassegnarono alla perdita del podestà e pertanto cominciarono a spedire ambasciatori alla Signoria di Firenze perché ritornasse sulla propria decisione, asserendo di essere «male serviti» da un semplice notaio ed alla fine ottennero, con provvisione del 25 febbraio 1475 la residenza alternata; in base a questa decisione, i podestà che si alternavano a cadenza semestrale, risiedevano uno a Vinci ed il successore a Cerreto23. Avrebbe potuto essere una soluzione equa, che avrebbe salvaguardato i diritti e le aspettative di entrambe le comunità, ma questo nuovo provvedimento scontentò gli abitanti di Vinci senza accontentare quelli di Cerreto Guidi, tanto che questi ultimi ricominciarono ad inviare ambasciatori a Firenze a sostenere l'assunto che il podestà doveva risiedere permanentemente nel loro paese24. I rappresentanti del comune di Vinci dal canto loro non rimasero inattivi ed il governo fiorentino, non sapendo come sbrogliare la matassa, emanò la provvisione del 27 agosto 1482 che stabiliva che i podestà destinati a questa zona scegliessero ad libitum dove risiedere25.

La questione non finì nemmeno con questo provvedimento e gli anni successivi sono costellati di altre decisioni, ognuna delle quali contraddiceva la precedente e di cui è difficile dar conto con precisione. Sembra tuttavia che un provvedimento del 1545 che ripristinava la residenza alternata sia stato quello definitivo26, anche se un esame accurato della poca documentazione superstite lascia dubbi sul fatto che sia stato rigidamente osservato.

La residenza saltuaria del podestà inoltre non invogliava le due amministrazioni locali ad investire denaro in migliorie e rifornimenti dei palazzi pretori, tanto che la corrispondenza dei podestà di Vinci e Cerreto Guidi con gli uffici centrali del governo fiorentino è costellata di proteste sulle condizioni di abitabilità dell'alloggio e sulla penuria di mobili e suppellettili, comprese le cose più essenziali27.

Tutti gli atti emanati dal podestà erano redatti da quello dei due notai della sua «famiglia» che rimaneva presso di lui ed era definito nelle fonti contemporanee «miles socius» o «cavaliere», mentre l'altro notaio, che amministrava la giustizia nel centro non coperto dal podestà era detto «ufficiale di banco». La responsabilità degli atti prodotti era comunque del podestà, ma le cognizioni tecniche, la teoria e la prassi giudiziaria, erano invece bagaglio esclusivo di questi notai, che costituivano l'ossatura burocratica di podesterie e vicariati, come del resto di tutte le amministrazioni centrali e periferiche.

La stragrande maggioranza dell'attività dei podestà, specialmente nelle podesterie rurali come Vinci, consisteva negli atti esecutivi, ovvero nel costringere, anche mediante sequestri e pignoramenti, i debitori morosi a pagare i loro debiti, tanto a carattere locale («Pubblico di podesteria») che nei confronti di magistrature fiorentine («Pubblico di Firenze»), mentre la sezione dedicata ai debiti nei confronti di privati, costituiva appunto il «Privato». Altra gravosa funzione del podestà era quella di dare esecuzione agli ordini che venivano da Firenze: attuare le «comandate», le prestazioni di lavoro obbligatorie cui gli abitanti della podesteria erano tenuti per l'esecuzione di opere ritenute di pubblica utilità; eseguire censimenti, o di tutti gli abitanti, come avvenne nel 1551, o di specifiche categorie, o di raccolti e produzioni particolari; effettuare visite ispettive alle carceri, agli ospedali, ai mulini.

Mentre in alcune podesterie più importanti il podestà aveva anche una più o meno estesa competenza criminale, nel nostro caso gli spettava soltanto la punizione di reati minori come la bestemmia, la rissa, l'insubordinazione, la resistenza a pubblico ufficiale, il gioco d'azzardo, il danneggiamento di pubblici edifici e poco altro. Per i reati veri e propri si ricorreva al vicario di San Miniato, il quale, come si è già detto, non aveva in linea di principio alcuna superiorità gerarchica sui podestà della sua circoscrizione, ma di fatto, per poter esercitare le sue funzioni, doveva spesso inviare ordini a questi ultimi (ordini di cattura, di sequestro, etc.); inoltre, in quanto titolare di una circoscrizione più vasta, spesso gli venivano inviati ordini dal governo centrale, con il compito di diramarli alle varie podesterie. Il compito di formalizzare le accuse contro chi avesse commesso un reato nell'ambito della podesteria di Vinci spettava ad un apposito ufficiale, detto «sindaco de' malefici»; dal 1575 tale funzione fu sdoppiata ed i sindaci divennero due, uno per il «Piano» (popoli di santa Croce a Vinci, sant'Ippolito a Valle e san Donato in Greti) e l'altro per il «Monte» (popoli di san Lorenzo Armano, santa Maria a Faltognano, santa Lucia a Paterno, san Piero a Santo Mato, santa Maria al Pruno)28.

Il podestà si configurava anche, come si è già detto, come vertice dell'amministrazione locale; in questa funzione collaborava strettamente con i Capitani di parte guelfa che insieme a dieci consiglieri, costituivano una sorta di giunta esecutiva del comune; le loro decisioni, per diventare operative, dovevano poi essere ratificate dal consiglio generale. Questo apparato presumibilmente non aveva in origine precisi limiti di spesa e faceva erogare le somme necessarie al camarlingo comunitativo, attingendo alle entrate del comune (canoni di affitto o di livello di mulini, frantoi ed altri immobili di proprietà comunale e introiti di multe). L'eventuale disavanzo tra le spese e le entrate veniva ripartito tra gli abitanti in base alle quote dell'estimo. Con il 1419 fu invece istituita una magistratura centrale appositamente destinata al controllo delle spese comunitative, che fissò una volta per tutte il budget di ogni singola circoscrizione (dai popoli ai vicariati) e stabilendo che le spese straordinarie dovevano essere preventivamente approvate dalla stessa magistratura, che prese il nome di Cinque Conservatori del contado. Con l'instaurazione del principato tale controllo sulle amministrazioni locali si fece più stretto e fu affidato al Magistrato dei Nove Conservatori del dominio fiorentino e della giurisdizione, che sostituì i Cinque nel 1560. Per cercare di rendere più efficiente il controllo sulle comunità e di razionalizzare l'intero sistema, unificando, per quanto possibile le procedure, il nuovo magistrato cominciò a sostituire ai vari cancellieri locali, che le comunità si erano fino ad allora scelte autonomamente, dei cancellieri nominati dal governo centrale, destinati a rimanere nella sede assegnata per un periodo pluriennale: furono questi i cosiddetti «cancellieri fermi», chiamati così in contrasto con i loro predecessori, in genere soggetti a veloce rotazione, come in genere tutte le cariche comunitative. Oltre a questa "lunga durata" essi si distinguevano dagli attuari dei comuni per il fatto che erano alle strette dipendenze non delle amministrazioni locali ma del magistrato che su di esse esercitava la tutela, tanto che vengono definiti dalle fonti contemporanee «cancellieri dei Nove», benché ricevessero stipendio ed alloggio dalle popolazioni locali. Per il resto essi avevano la stessa fisionomia dei primi, in quanto, se escludiamo alcune sedi più importanti cui veniva destinato un dottore in legge, la stragrande maggioranza delle cancellerie fu affidata a dei notai «forestieri», cioè originari di altre comunità, cosa che costituiva un indubbio fattore di continuità con il passato. La sostituzione di queste nuove figure ai cancellieri comunali tradizionali fu attuata senza un provvedimento formale a partire dagli anni settanta del Cinquecento e cominciando dalle comunità più periferiche del dominio, alcune delle quali non mancarono di ribellarsi a questa novità, adducendo particolari privilegi ottenuti dalla Repubblica fiorentina al momento della sottomissione. Le proteste non sortirono però alcun effetto e la sostituzione dei nuovi cancellieri, ai vecchi poteva dirsi ultimata nel maggio 1575 quando furono emanate le Istruzioni per i cancellieri.

La dislocazione dei cancellieri dei Nove ricalcò all'inizio quella dei podestà e pertanto ad ogni sede podestarile fu destinato un cancelliere. Questo semplice fatto costituì già di per sé per questa zona un motivo di rottura con il passato, quando le due comunità di Vinci e Cerreto Guidi, pur riunite sotto un unico podestà, avevano avuto un proprio cancelliere; invece dal 16 settembre 1570, data di elezione di Marco Mellini da Vicchio di Mugello, dovettero fare a mezzo dello stesso. Inoltre per Vinci la novità fu ancora più evidente: se per i secoli XIV-XV sono segnalati anche qui come cancellieri del comune dei notai provenienti da località vicine (ser Niccolò Nelli da San Gimignano nel 1382, Jacopo di Lorenzo Guidini dal Castellare di Tonda nel 1418, Pietro di Niccolò Bindi da San Gimignano nel 1429, etc.), attorno alla metà del Cinquecento, forse per un impoverimento della comunità, si cominciò a far ricorso a persone meno qualificate, definite «scrivani», che si prestavano a redigere le poche scritture del comune in margine ad altre attività e che per questo motivo poco gravavano sulle casse comunali. Dal 1570 invece, per ordine del governo centrale, Vinci vide aumentare le sue spese, dovendo contribuire allo stipendio ed al mantenimento del «cancelliere dei Nove» e nel contempo non ebbe più un proprio cancelliere, in quanto questi risiedeva stabilmente a Cerreto Guidi; non mancarono pertanto reiterate proteste e suppliche29ma non ci fu niente da fare. Vinci rimase sottoposta alle competenze del cancelliere di Cerreto Guidi, che progressivamente divenne il vero deus ex machina di tutta l'amministrazione locale. In questo modo vennero parallelamente a diminuire le funzioni di carattere amministrativo prima affidate al podestà: il rinnovo delle cariche comunitative, la revisione dei bilanci dei camarlinghi, le complesse e numerose operazioni che richiedeva la ripartizione e la riscossione della tassa sul macinato, il censimento periodico dei beni e delle entrate delle comunità e luoghi pii: su tutto questo e su altro ancora vigilava l'onnipresente cancelliere comunitativo. La superiorità gerarchica del podestà nei suoi confronti (gli ordini del governo centrale continuarono fino al tardo Seicento ad essere indirizzate al podestà) rimase pertanto un fatto più onorifico che sostanziale.

La presenza del cancelliere rappresentava, però, un onere gravoso per le popolazioni locali, tanto che alcuni decenni dopo l'istituzione, si cominciò a ridurre il numero dei cancellieri, accorpando più podesterie sotto un medesimo cancelliere. Accadde così anche in questa zona, ove dal 1634 troviamo tanto Vinci che Cerreto Guidi sottoposte alla competenza del cancelliere di Empoli, cui in precedenza erano già state riunite anche le podesterie di Montelupo e Lastra a Signa30. Dal 1634 e per quasi due secoli la vita amministrativa della podesteria di Cerreto e Vinci si svolse sotto l'egida del cancelliere di Empoli, il quale era costretto a recarsi di frequente nelle località sulla riva destra dell'Arno per redigere le scritture e controllare i bilanci, servendosi di un «navicello» per attraversare il fiume, dal momento che il primo ponte che univa le due parti della sua circoscrizione fu costruito soltanto in pieno Ottocento.

La fine della dinastia medicea nel 1737 e l'inizio del periodo della cosiddetta «reggenza lorenese» non portò con sé alcun mutamento istituzionale di rilievo a livello di amministrazione locale; in questo periodo c'è - se mai - da rilevare il compimento di numerose inchieste su vari settori della società, i cui risultati fecero da base per il successivo riformismo leopoldino. Queste inchieste misero sotto gli occhi dei fiduciari della nuova dinastia - occhi non offuscati dall'abitudine e dall'attaccamento ad antiche tradizioni - tutti gli anacronismi e le contraddizioni di un apparato amministrativo e giudiziario risalente, nelle sue grandi linee, ai secoli XIV-XV. In particolare destò meraviglia il sistema di conferire gli uffici per estrazione a sorte, anche se ormai questa pratica si limitava a quelli di minore importanza, e il fatto che ai rettori delle podesterie e dei vicariati, che avevano come compito precipuo (essendosi ormai fortemente attenuate le loro prerogative di rappresentanza politica e di presidio del territorio) l'amministrazione della giustizia, non fosse richiesta alcuna competenza tecnico-professionale, cosa che indurrà qualcuno del nuovo establishment a definirli «giudici idioti».

Per sanare questa situazione fu emanata dal granduca Pietro Leopoldo la Riforma dei tribunali Provinciali del 10 luglio 1771, in base alla quale vicari e podestà dovevano essere selezionati (e non più estratti a sorte) mediante esami di idoneità tra coloro che avevano compiuto regolari corsi di studi giuridici e senza più l'anacronistico requisito della cittadinanza fiorentina. Questa basilare riforma fu seguita di lì a poco (30 settembre 1771) da una completa riorganizzazione territoriale delle circoscrizioni giudiziarie che ampliò il numero dei vicariati e ridusse quello delle podesterie. Per quanto riguarda la podesteria di Vinci e Cerreto Guidi, fu abolita la residenza alternata e la seconda rimase unica sede del podestà, con il solo obbligo per quest'ultimo di recarsi a Vinci ogni domenica, per amministrarvi la giustizia. Per il penale fu sottoposta al neoistituito vicariato di Empoli.

Trattandosi di una podesteria minore, ai podestà di Vinci e Cerreto non era richiesta la laurea in legge, ritenendosi sufficiente la qualifica di notaio civile, che si conseguiva con un curriculum di studi abbreviato, rispetto alla laurea, ma era pur sempre un progresso rispetto al tempo dei «giudici idioti». Questa connotazione professionale, insieme all'abolizione del requisito della cittadinanza fiorentina, portò ad un completo rinnovamento del personale addetto alle corti di giustizia, com'è possibile notare scorrendo gli elenchi dei giusdicenti prima e dopo la riforma leopoldina. Essi rimanevano in carica ciascuno per diversi anni e non per un solo semestre, come accadeva prima, e pertanto al posto dell'unica filza di atti vari, detta «Civile» tout court, in cui si estrinsecava l'operato di ciascun podestà, si ebbero diverse filze e registri, ognuno contenente atti omogenei. Contemporaneamente si affermò il metodo di archiviazione per fascicoli (tutti gli atti relativi ad un unico procedimento cominciarono ad essere tenuti insieme e poi, a procedimento esaurito, rilegati), mentre prima le diverse fasi di un procedimento venivano registrate ognuna in un quaderno apposito, procedura che rende molto complicato allo studioso moderno ricostruire il singolo processo. Inoltre, come corollario della fusione dei due podesterie in un'unica circoscrizione, non vennero più tenuti quaderni separati per le cause interessanti le varie comunità.

Una ulteriore riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie si ebbe nel 1784 quando la podesteria di Cerreto Guidi - e quindi anche il territorio di Vinci - fu staccata dal vicariato di Empoli ed aggregata a quello di Fucecchio.

Il complesso delle riforme leopoldine ebbe anche il risultato di fare delle podesterie e dei vicariati delle semplici circoscrizioni giudiziarie, liberandole di tutte le funzioni amministrative, prima fra tutte l'esazione delle imposte, che andarono a gravare sulle nuove amministrazioni comunali create di lì a poco. Nel 1774 fu, infatti, varata una completa riforma delle amministrazioni locali che si articolò in un Regolamento generale per le comunità del Contado, cui ne seguì uno analogo per le comunità del Distretto e da un regolamento particolare per ciascuna comunità.

Nonostante l'accorgimento di emanare un regolamento particolare per ogni comunità, la riforma di Pietro Leopoldo mirava ad uniformare l'assetto istituzionale ed il funzionamento delle amministrazioni locali che da allora in poi differirono tra loro soltanto per il numero dei membri del Magistrato comunitativo e del Consiglio, che era proporzionato al numero degli abitanti e per l'ammontare della tassa di redenzione che prese il posto del vecchio dazio comunitativo, come diremo meglio in seguito. Veniva con questa riforma a cessare la distinzione tra contado e distretto, erano abrogati gli Statuti locali - e con questi la complessa gerarchia tra popoli, pivieri, comuni, comunelli, terre, ville e quanto altro aveva reso lento e farraginoso il funzionamento delle amministrazioni locali nel periodo precedente - nonché i particolari privilegi risalenti in molti casi al XIV secolo che alcune comunità continuavano a rivendicare.

In base al Regolamento particolare, emanato in data 23 maggio 1774 per la comunità di Cerreto Guidi, questa assorbì il territorio di Vinci, nonché quelli degli ex comuni o leghe di Colligonzi, Colle alla Pietra, Vitolini e Faltognano; quindi in un ristretto torno di tempo Vinci rimase priva tanto della sede podestarile che dell'amministrazione comunale.

La nuova comunità di Cerreto Guidi era retta da un Magistrato comunitativo formato da un gonfaloniere e quattro rappresentanti e da un Consiglio di diciannove deputati, uno per ognuno dei popoli che avevano concorso a formare la nuova circoscrizione comunale. Potevano essere membri del Magistrato e del Consiglio tutti coloro che possedessero beni immobili nel territorio comunale, ovunque fossero residenti (compresi quindi i cittadini fiorentini, come gli Alessandri, i Gaddi, gli Adimari Morelli, etc., proprietari della maggior parte dei poderi della zona, che in passato, a norma degli Statuti locali, erano esclusi dalle cariche comunitative, in quanto non «allibrati» nei ruoli delle imposte locali e compresi anche gli enti, sia religiosi che laici, che potevano designare un proprio rappresentante negli organi comunali). Come corollario di questa normativa si rese necessario l'impianto su basi più razionali di un catasto generale e l'affidamento della sua tenuta ed aggiornamento alla responsabilità dei cancellieri comunitativi, in questo caso quello di Empoli.

La riforma comunitativa del 1774 rinnovò profondamente anche il sistema fiscale: a parte la tassa sul macinato e la decima (l'imposta sulle proprietà immobiliari) che avevano reti separate di esazione, la contribuzione diretta nel contado si era basata sul dazio comunitativo, un'imposta formata di varie voci, diverse da una comunità all'altra, ma che aveva come nucleo fondamentale il «chiesto dei Nove», ovvero una somma di denaro - variabile da un anno all'altro - con cui il Magistrato dei nove conservatori si faceva rimborsare dalle amministrazioni locali quanto aveva speso nel loro interesse durante il precedente esercizio finanziario (lavori stradali, spese militari, costruzione di opere pubbliche, stipendi di ufficiali, etc.). Questa somma veniva ripartita tra le comunità interessate in base alla «massa estimale», cioè alla somma delle quote di estimo di ogni contribuente abitante entro i confini comunali. Questa quota era agganciata per i mezzadri al valore del podere lavorato; per gli artigiani, commercianti e braccianti consisteva in una cifra forfettaria (di solito due lire per le prime due categorie, una lira per la terza); soltanto chi veniva riconosciuto «miserabile» era esente dalla contribuzione. Secondo l'ammontare del «Chiesto», cui venivano aggiunte le altre «voci», come le spese locali, ogni contribuente era chiamato a pagare una frazione o più spesso un multiplo della cifra con cui era iscritto all'estimo. Il compito di redigere i ruoli del dazio (come del resto anche quelli della tassa sul macinato e delle imposizioni straordinarie) spettava al cancelliere comunitativo, mentre le riscossioni e le relative scritture contabili erano pertinenza del camarlingo.

La riforma comunitativa sostituì il dazio con una «tassa di redenzione» pagata in misura fissa dai mezzadri, artigiani etc. (per la determinazione della somma, era stata fatta una media delle annate precedenti); quel che mancava a raggiungere il fabbisogno stimato (il pagamento della tassa era preventivo e non a titolo di rimborso, come era stato il dazio), veniva diviso tra i possidenti.

Queste furono per sommi capi le più importanti ripercussioni a livello di amministrazione locale del riformismo leopoldino. Per trovare un altro periodo altrettanto denso di innovazioni e oltretutto concentrate in un piccolissimo lasso di tempo occorre giungere al cosiddetto «periodo francese» (1808- 1814).

In realtà il periodo di influenza dei francesi sull'Italia e sulla Toscana era cominciato oltre un decennio prima del trattato di Fontainebleau del 27 ottobre 1807 e del Senatoconsulto del 24 maggio 1808, ma furono soltanto questi ultimi a determinare, mediante l'annessione diretta della Toscana all'impero francese, bruschi e profondi cambiamenti sull'assetto istituzionale del Granducato, sia a livello di governo centrale che di istituzioni periferiche.

Il territorio della Toscana fu diviso, seguendo l'organizzazione amministrativa vigente in Francia, in tre dipartimenti: dell'Arno, dell'Ombrone e del Mediterraneo, con capoluoghi - rispettivamente - Firenze, Siena e Livorno, cosa che determinò per Firenze la perdita del ruolo di capitale di Stato; ogni dipartimento fu a sua volta suddiviso in circondari e questi in municipalità. A livello di dipartimento operava una prefettura, da cui dipendevano varie sottoprefetture, una per ogni circondario; infine a ciascuna sottoprefettura facevano capo le municipalità, più frequentemente designate con il termine francese di maìriés. A capo di ogni amministrazione municipale c'era un maire, che a differenza del gonfaloniere di cui aveva preso il posto, si configurava come funzionario del governo centrale, piuttosto che come capo dell'amministrazione locale, tanto è vero che veniva nominato dal prefetto del dipartimento di appartenenza. Egli era il vero ed il solo responsabile del Comune, tanto della gestione economica che del mantenimento dell'ordine pubblico, tanto è vero che, in caso di bisogno, poteva valersi della forza pubblica; era coadiuvato da un aggiunto, con funzioni di supplenza negli impegni di minore importanza e da un segretario, con funzioni di attuario, incarico a cui furono solitamente chiamati gli ex cancellieri comunitativi del precedente regime; esisteva poi un Consiglio comunale con un numero variabile di membri, in proporzione al numero degli abitanti, con funzioni puramente consultive.

Data l'estensione e la complessità delle funzioni affidate ai maires, la loro presenza divenne capillare sul territorio e pertanto fu molto aumentato, rispetto al passato, il numero delle amministrazioni comunali: il territorio del comune di Cerreto Guidi, che in base al regolamento leopoldino del 1774 comprendeva anche Vinci, fu di nuovo suddiviso in due circoscrizioni o mairies, una con capoluogo Vinci ed una con capoluogo Cerreto; a quest'ultima circoscrizione furono attribuiti soltanto cinque popoli dei diciannove che componevano la comunità leopoldina, entrando i quattordici rimanenti a far parte della mairie di Vinci. Entrambe le mairies erano comprese nel dipartimento del Mediterraneo e facevano capo alla sottoprefettura di Pisa.

Nel periodo «francese» anche il sistema fiscale fu profondamente cambiato: al posto del dazio o tassa di redenzione e della tassa sul macinato, si misero l'imposta fondiaria, quella personale, la tassa sulle porte e finestre (che colpiva il lusso delle abitazioni) e la tassa sulle patenti; furono ripristinati anche i dazi di consumo o octrois e quelli doganali. Per riscuotere le imposte, al posto dei camarlinghi, furono istituiti dei percettori, che non ricevevano uno stipendio, ma una percentuale sul riscosso.

Furono estesi alla Toscana il servizio di Stato civile e la Leva militare obbligatoria, funzioni a carico delle amministrazioni locali.

Per quanto attiene all'ordinamento giudiziario, podesterie e vicariati furono soppressi dall'amministrazione francese ed i tribunali ordinari stabiliti a livello di dipartimento per il penale e di circondario per il civile. Il «volto locale della giustizia» sotto la dominazione francese fu rappresentato dai giudici di pace, che amministravano soltanto la bassa giurisdizione civile ed il danno dato. Per quanto attiene a questo settore, le due comunità di Vinci e Cerreto Guidi rimasero accorpate in una medesima giudicatura di pace, con sede a Cerreto. Benché nei ruoli-chiave dell'amministrazione centrale fossero insediati funzionari francesi, a livello di periferia fu lasciato ampio spazio al ceto burocratico formatosi sotto la dinastia lorenese: pertanto per il ruolo di giudice di pace si scelsero di solito ex podestà o ex vicari per le località maggiori, ex notai di tribunale per i centri minori, mentre per l'incarico di maire si fece ampio ricorso a notabili del luogo.

Con la convenzione di Parma del 20 aprile 1814 terminò, com'è noto, la parentesi francese ed il restaurato governo granducale fu presieduto, in attesa del ritorno del granduca, dal plenipotenziario principe Giuseppe Rospigliosi; questi avrebbe voluto che tutto tornasse come era stato prima del 1808, ma per molti aspetti ciò non fu possibile, perché il periodo francese, con le sue luci e le sue ombre, aveva impresso all'amministrazione toscana una notevole spinta in avanti e istituzioni come lo Stato civile e la Leva militare non furono più abrogate, come del resto furono proseguite ed infine portate a termine le operazioni per il Catasto generale toscano, il primo catasto particellare dell'età moderna31.

Queste riforme si tradussero in nuovi compiti affidati alle comunità, cosa che indusse il restaurato governo granducale a mantenere in vita tutte le amministrazioni locali create ex novo o ripristinate nel periodo francese: così anche Vinci ridivenne capoluogo di comunità con un gonfaloniere, un Magistrato comunitativo ed un Consiglio comunale suoi propri ed un territorio analogo a quello attribuito all'omologa mairie durante il periodo francese. Per quanto riguarda il gonfaloniere, questi rimase - com'era stato il maire - di nomina governativa e gli furono affidate nuove funzioni e responsabilità. Egli, in quanto non più "organico" all'amministrazione locale, ma elemento esterno ad essa, poteva sospendere la validità delle delibere comunitative, già approvate dal Magistrato e dal Consiglio. In questo modo il gonfaloniere diveniva la vera cinghia di trasmissione a livello locale degli ordini governativi; per questo motivo dalla Restaurazione in poi prende corpo negli archivi comunali la serie del «Carteggio del gonfaloniere» che prima non esisteva, in quanto tutti gli ordini e le comunicazioni tra centro e periferia passavano per l'unico canale costituito dal cancelliere comunitativo.

Quando nel 1818 fu creato a Cerreto Guidi un ufficio distaccato di cancelleria, dipendente dal cancelliere comunitativo di Empoli, anche Vinci fu sottratta alla competenza diretta di quest'ultimo e insieme a Capraia andò a formare la circoscrizione dell'aiuto cancelliere di Cerreto. Tale situazione si mantenne fino al 1838, quando l'ufficio staccato di Cerreto Guidi fu elevato a normale cancelleria comunitativa, con competenza sulle medesime tre comunità.

Per quanto riguarda l'ordinamento giudiziario, con il 1814 tornarono in vita le podesterie ed i vicariati, secondo una dislocazione analoga a quella del periodo leopoldino, ovvero, per la nostra zona, la podesteria di Cerreto Guidi, comprendente anche il territorio comunale di Vinci e sottoposta, per il penale, al vicariato di Fucecchio.

Questa aggregazione era stata dettata da motivi logistici, la sempre ribadita difficoltà di comunicazione tra località situate sulle rive opposte dell'Arno e queste stesse motivazioni determinarono l'aggregazione di Vinci a Fucecchio, anche in occasione dell'istituzione di nuove circoscrizioni amministrative, come l'Ufficio del Bollo, l'Ingegnere di circondario32 e la Divisione di posta.

Una riforma di ampio respiro, amministrativa e giudiziaria insieme, si ebbe con la legge del 9 marzo 1848, che segnò la definitiva scomparsa dei vicari e dei podestà; il territorio del Granducato fu diviso in sette compartimenti di Prefettura, ognuno dei quali ripartito in vari circondari di Sottoprefettura, a loro volta suddivisi in Delegazioni di governo. Nei capoluoghi di circondario vennero istituiti i Tribunali, mentre al livello inferiore si ebbero le Preture, la cui dislocazione ricalcò approssimativamente quella delle podesterie. I pretori divennero giudici minori, tanto nel civile che nel penale, ufficiali di polizia giudiziaria ed anche, nei luoghi ove non esisteva la Delegazione di governo, di polizia amministrativa (passaporti, porti d'arme, etc.), garanti dell'pubblico e delle condizioni igienico-sanitarie. Per assolvere a questi compiti il pretore comandava la forza pubblica (Guardia civica).

Vinci rimase aggregata per la bassa giurisdizione alla Pretura di Cerreto Guidi, mentre per le cause più importanti faceva capo al Tribunale di San Miniato. Questo stato di cose durò fino all'annessione della Toscana al Regno d'Italia, che comportò profondi mutamenti istituzionali diretti ad omogeneizzare, per quanto possibile, l'apparato amministrativo e giudiziario dei vari stati preunitari.

Con Regio decreto 2637 del 14 dicembre 1865 la Pretura di Cerreto Guidi fu abolita ed il territorio delle due comunità di Cerreto Guidi e Vinci accorpato alla Pretura di Empoli. Questo provvedimento fu presumibilmente alla base anche del trasferimento a Empoli degli atti giudiziari prodotti nel plurisecolare arco di vita della podesteria, poi pretura, di Cerreto-Vinci, che da allora in poi seguirono le sorti dell'archivio della Pretura di Empoli, insieme al quale furono infine versati nell'archivio di quest'ultimo comune33. Dal punto di vista delle amministrazioni locali l'atto che segnò il passaggio tra comune preunitario e il suo omologo postunitario fu la promulgazione del corpus legislativo per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia del 22 marzo 1865 n. 2248, il quale conteneva anche la prima Legge comunale e provinciale del nuovo regno34. Il territorio dello Stato risultò in base ad essa diviso in provincie (ad ognuna delle quali fu preposta una Prefettura), circondari (ad ognuno dei quali faceva capo una Sottoprefettura), mandamenti e Comuni. Risultava abolita la figura del cancelliere commutativo, che tanta importanza aveva rivestito per le amministrazioni locali nei suoi circa tre secoli di esistenza: le singole comunità divennero enti a sé stanti incardinate nei circondari e nei mandamenti: nel caso di Vinci, come si è già detto, il circondario - e di conseguenza la Sottoprefettura competente - fu quello di S. Miniato, fino al 1927, quando questa circoscrizione intermedia fu abolita, il mandamento quello di Empoli e la Prefettura quella di Firenze che, fino all'istituzione delle regioni nel 1970, esercitò la tutela su tutti i Comuni della provincia.

La legge comunale e provinciale del 1865 fu dunque il fondamento della vita amministrativa dei nuovi Comuni, di cui dettava norme per l'elezione dei consigli e per il funzionamento degli altri organismi, indicava le fonti di finanziamento e stabiliva le procedure amministrative. Altre leggi comunali furono approvate negli anni seguenti che apportarono dei cambiamenti, anche significativi, ma la struttura rimase essenzialmente quella fissata nel 1865.



Complessi archivistici prodotti:
Comunità di Vinci, 1564 - 1865 (fondo, conservato in Comune di Vinci. Archivio storico)